Rientrata dalla Viennale International Filmfestival alla sua 63° edizione quest’anno, cerco lentamente di far sedimentare l’infinita successione di volti, storie, luoghi e tempi impressi nella mia memoria.
Dei più di 200 titoli in programma, tra lungo- e cortometraggi, documentari e retrospettive, avevo attuato una preselezione -che si è forzatamente evoluta in itinere- legata a temi congeniali ai miei interessi, con focus su diritti, libertà di pensiero, censura e controllo, minoranze, sguardi “sul femminile” e in particolare su opere di autori che difficilmente verranno proposti in Italia, soprattutto in lingua originale.
Dei 24 film che sono riuscita a vedere riaffiorano costantemente alla memoria alcuni titoli, di cui scriverò nei prossimi mesi, ma uno su tutti -l’unico che ho voluto rivedere- merita questa prima riflessione condivisa.
The village next to Paradise, primo lungometraggio dell’esordiente Mo Harawe, regista di origini somale da anni residente in Austria, è stato inserito nella sezione Un certain régard del Festival di Cannes, prima di arrivare alla Viennale, dove ha ricevuto il Wiener Filmpreis 2024 come miglior film austriaco. E’ stato il primo film somalo mai presentato a Cannes: e ciò rappresenta un’attestazione di stima per il lavoro di Harawe, accostato nella sezione Un certain régard a quello di registi -affermati o nuovi talenti- sensibili a tematiche attuali ed impegnati con audacia nel proporre visioni originali ed innovative.
La presenza a Cannes richiama inoltre l’attenzione su un Paese martoriato da una guerra civile tra le più sanguinose del continente africano, le cui conseguenze sono tuttora presenti nella quotidianità. Harawe sceglie di aprire la narrazione col breve estratto di un notiziario americano sull’attacco di droni a una piccola località vicina alle coste somale. Le drammatiche immagini in bianco e nero iniziali, una sorta di stonato preludio, contrastano profondamente con la melodia della storia narrata, coi suoi tempi languidi, con i caldi e pastosi colori del Corno d’Africa, coi densi e significativi silenzi dei personaggi.
Il ritmo è lento, ma di impatto emotivo molto forte: sembra accadere ben poco nello scorrere dei giorni a Paradise. In verità questa “piccola storia” viene narrata con un linguaggio essenziale e al contempo fortemente evocativo, dunque estremamente potente. Impressiona l’audacia di un giovane regista al suo esordio, eppure già capace di incantare e forzare il pubblico ai tempi rallentati del suo flusso narrativo con tanta maestria. Toccante e di grande impatto anche la recitazione dei suoi attori, non professionisti, capaci di dar voce e corpo ad una storia così intima, ma universale.
Marmagade, lo straordinario Axmen Cali Faarax, è un padre che accetta ogni tipo di lavoro, necroforo, meccanico o autista per trasporti anche illegali, per sopravvivere e mantenere il piccolo Cigaal (Ahmed Mohamud Saleban), che sta crescendo da solo dopo la morte della madre e con cui vive da poco anche insieme alla sorella Araweelo (Anab Ahmed Ibrahim) a Paradise sulle coste somale.
Marmagade da venti anni scava tombe e accompagna i parenti dei defunti con scarne cerimonie di addio. Ha seppellito anche i cadaveri smembrati degli attentati, anche quelli uccisi dai droni americani che lanciano missili per colpire Al Quaeeda.
Ecco che la “grande storia” si affaccia nel quotidiano di questa precaria famiglia in un contesto soggiogato da leggi tribali, appartenenza a clan, necessità per le donne di essere legittimate da un matrimonio per poter accedere a prestiti bancari, forte influenza della religione islamica in ogni aspetto dell’esistenza, segnata costantemente da un senso di oppressione e paura, da uno spettro di morte.
La Somalia è ancora un paese privo di assetto statale stabile, in cui le persone senza documenti attestano la propria identità con l’appartenenza ai clan e dove anche i minimi spostamenti sono controllati da posti di blocco militari, gestiti spesso da corrotti o corruttibili funzionari.
Il piccolo Cigaal, molto intelligente e sensibile, legato da affetto profondo alla zia e a un padre quasi anaffettivo nel suo costante arrabattarsi per la sopravvivenza, è un bambino sereno e interessato alla scuola, che dovrà abbandonare quando verrà chiusa per mancanza di fondi. Marmagade lo iscriverà ad un internato in città, scegliendo di farlo studiare, ma privandolo così dei suoi affetti più cari e delle sue radici.
Araweelo, pur sommersa dai problemi economici dopo aver divorziato -non poteva avere figli, ma non accettava che il marito volesse una seconda moglie, come previsto dal Corano- e con il sogno di aprire un negozio di sartoria per potersi rendere indipendente, resterà accanto a Cigaal, assicurandogli l’affetto caldo e costante della famiglia e riuscendo in qualche modo a modificare il comportamento di Marmagade, spingendolo a comunicare le sue paure, i suoi errori, ma anche il suo affetto paterno.
“My whole life I’ve tried my best to take a step forward and make things better. But I keep messing things up” Marmagade riassume con queste parole tutta l’amarezza del sentirsi sconfitto, quando in realtà è stato capace di gesti di generosità e accoglienza, come scopriremo in un turning point della trama.
E sarà Araweelo, per me la vera protagonista della storia, l’unica a realizzare il suo progetto di vita in autonomia, a tenere insieme questa improbabile famiglia -solo in apparenza disfunzionale- con la speranza in un futuro possibile.
"It's ok. Better days will come. We will see this through as a family."
Lo sguardo del femminile e sul femminile è stato un fil rouge che ho cercato nel programma della Viennale, seguendo le protagoniste di gioielli recentemente restaurati come Khak-E-Sar Bé Mohr (The saled soil), Iran 1977 di Marva Nabili, primo film iraniano in assoluto diretto da una regista donna, o recentemente premiati a Cannes come Daneh An Jeer Moghadas (The seed of the Sacred fig), D, F, IR 2024, del regista iraniano in esilio Mohammad Rasoulof, o ancora di Shahed (The witness), D, A, 2024, di Nader Saeivar, anch’egli iraniano, Ah-Ga-Ssi (The handmaiden), KR 2016 di Park Chan-Wook, ambientato nella Corea del Sud degli anni'30, durante l'occupazione giapponese, e molte altre ancora che spero vedremo presto nelle sale italiane.
Donne fiere, ancora e sempre oppresse da una società patriarcale, che cercano e trovano strade per esprimere dissidenza al regime o ai modelli educativi, in modalità spesso in apparenza invisibili o minoritarie, ma in realtà esempi fondanti della capacità di resistenza che ci permette di sopravvivere.
The village next to Paradise è stato già visto e apprezzato in molti paesi, partecipando ad importanti rassegne e festival-recentemente anche Tff (Torino Film Festival)-, ma non sappiamo ancora se arriverà in Italia … forse Mubi lo proporrà, come spesso accade per i film segnalati dalla critica.
Vederlo alla Viennale, seguito da un Q&A con regista e sceneggiatore, ha permesso al pubblico di comprendere anche le intenzioni che hanno portato, ad esempio, alla scelta del titolo. Mo Harawe sostiene che The village next to Paradise sia polisemico e giochi su almeno due livelli. Da un lato si narra di un villaggio vicino al mare, in un tratto di costa di per sé molto bello, dunque in qualche modo paradisiaco. Dall’altro è la Somalia stessa ad essere vicino al Paradiso, nel senso che ne avrebbe tutto il potenziale, con una popolazione di meno di 15 milioni di abitanti e un paese idillicamente collocato tra l’Oceano Indiano e il Golfo di Aden, ma purtroppo la sua storia testimonia quanto la realtà sia tutt’altro che paradisiaca.
I am always hopeful, ripete Harawe, nato e cresciuto a Mogadiscio, che dal 2009 vive in Austria, dove ha potuto terminare gli studi e realizzare il suo progetto di vita e professionale. Nelle sue opere cinematografiche torna alle origini, approfondendo tematiche e ancorate alla “sua Africa”, ma arricchite da tecniche e modalità apprese in Europa.
E così questo film, pur profondamente ispirato da quel realismo sociale che connota lo stile della cinematografia africana contemporanea, riesce a rielaborare i concetti di stigma e stereotipo, costruendo una nuova modalità di storytelling. Affronta tematiche di ampio respiro, profondamente socio-politiche, dal punto di vista di una piccola comunità di individui che nel loro quotidiano sono alla ricerca costante di senso in un mondo sempre più ostile, osserva partecipe le loro sconfitte, celebra i loro piccoli, ma significativi passi avanti verso un migliore e più consapevole futuro.
E lo fa con uno sguardo attento e compassionevole rivolto all’inesauribile forza rigeneratrice della natura umana.
Uno sguardo che è una carezza.
Carla Babini
[novembre 2024]