Presentato in anteprima al Festival di Cannes, The old oak, arrivato nelle sale italiane a metà novembre, rischia di essere l’ultimo film di Ken Loach che, a 87 anni, dichiara di non aver più tempo per lavorare su un nuovo progetto.
Non vogliamo credergli: il suo cinema è necessario.
Da sempre un atto politico, mosso da uno sguardo implacabile sulla realtà e sulle ingiustizie sociali, a cui però non viene mai meno la speranza in un possibile cambiamento.
“La speranza è una questione politica. Se la gente confida di cambiare le cose va a sinistra, altrimenti è preda del cinismo, della disperazione. E passa a destra.”, afferma Loach in una recente intervista. The old oak pare chiudere idealmente una trilogia iniziata con Io, Daniel Blake (Palma d’oro a Cannes nel 2016) e proseguita con Sorry, we missed you (2019): storie di ordinario disagio e sfruttamento nel Nord-Est dell’Inghilterra, in un’area drammaticamente impoverita dopo la chiusura delle miniere in epoca thatcheriana e ora al collasso per gli esiti di globalizzazione e gig economy.
The old oak, la vecchia quercia, è un vecchio pub sull’orlo del fallimento, a Durham, sede di numerose miniere dalla metà dell’Ottocento fino agli anni ’90 del secolo scorso e tristemente nota per il disastro che provocò nel 1951 la morte di 83 minatori. La definitiva chiusura delle miniere e l’abbandono da parte delle istituzioni ha segnato pesantemente la storia di una comunità, costituita ai tempi in gran parte da operai sindacalizzati, divenuti oggi anziani sconfitti e disillusi. Ad un passato di lotta e solidarietà si è sostituito gradualmente un presente fatto di precarietà e paura, di profonda solitudine e dis-integrazione sociale. In un contesto così difficile arrivano nel 2016 molti profughi siriani, cui il governo ha concesso il visto, accentuando tensioni e problemi all’interno di una comunità già lacerata dalla crisi economica. Gli abitanti li vedono spesso come nemici, usurpatori, a volte riescono a comprendere il loro dramma e si chiedono come poterli aiutare: in queste reazioni, del tutto comprensibili, c’è tutto il dramma di una lotta tra poveri che ben conosciamo.
“Non abbiamo niente in questo posto e dobbiamo spartirlo con questi?” si chiedono le persone a Durham. TJ, l’anziano e disilluso proprietario del pub, proverà a confrontarsi con questa nuova realtà, ammettendo: “Cerchiamo tutti un capro espiatorio. Quando la vita non va, cerchiamo chi è più in basso di noi per calpestarlo”.
Ken Loach porta il suo cinema del reale in questi luoghi, e dà voce a queste persone: “Alla telecamera non si mente: vedi il tessuto della pelle, vedi come guardano il cibo, come si siedono, come si relazionano. Un attore, calato in un’esistenza che non è la sua, suonerebbe falso: potrebbe essere un’ottima performance, ma inevitabilmente artificiosa”.
È proprio questa ricerca della verità scenica che guida la collaudata coppia Loach Laverty, mantenendo con sapienza un difficile equilibrio tra crudezza e sentimentalismo, riuscendo a comunicare invece emozioni forti e profonda empatia. E così, accanto a molti attori “presi dalla strada” recitano alcuni professionisti, tra i quali spiccano per le loro straordinarie interpretazioni Ebla Mari (Yara) per la prima volta sul grande schermo e Dave Turner (TJ), già presente in Io Daniel Blake e Sorry, we missed you.
Ebla Mari era un’insegnante di teatro siriana del villaggio di Majdal Shams, parte delle Alture del Golan che si trovano sotto l’occupazione militare israeliana fin dalla guerra dei sei giorni del 1967, e non conosceva Ken Loach e la sua cinematografia. È stata la regista palestinese Annemarie Jacir a metterla in contatto con la produzione: la sua non è la storia di una rifugiata, ma ne conosce bene la realtà e nel periodo delle riprese in Inghilterra ha frequentato molti siriani mandati a vivere nelle ex città minerarie del Nord-Est per documentarsi ascoltando le loro storie. Dopo l’esperienza di The old oak è tornata al lavoro coi suoi studenti: il suo sogno, dichiara, è ora quello di recitare di più e studiare cinema.
A Ebla viene affidato il personaggio di Yara, unica rifugiata a conoscere un po’ di inglese, aspirante fotografa e alter-ego del regista. “Nella mia vita ho visto cose terribili, ma se le guardo attraverso la macchina fotografica riesco a rivestirle di speranza” dice Yara a J.T.: e questa ci pare in realtà la sintesi dell’opera di Loach, il suo testamento artistico.
“When you eat together, you stick together”: è un pranzo solidale, un pasto offerto gratuitamente a due comunità distinte, divise tra loro e anche disgregate al loro interno a unire, a creare comunità e integrazione in The old oak.
“A volte nella vita non c’è bisogno di parole. Solo di cibo” dice Yara. E così è nel cibo, nel donarlo, nel prepararlo insieme, mescolando le tradizioni gastronomiche, unendo le forze, che una comunità si può ricostituire, che le distanze si possono ridurre, le differenze appianare. Strength, unity, resistance.
Forza, unità, resistenza (e non resilienza come recitano i sottotitoli italiani). È la scritta che uno dei sindacati locali porta in corteo, e lo scrive anche a caratteri arabi: queste sono le parole d’ordine del nostro tempo, pare dirci Loach.
Ma in una recente intervista ci ricorda anche che per poter combattere questo stato di cose è fondamentale che l’opposizione lavori ad un programma chiaro e concreto per costruire comunità e solidarietà, per ridare speranza reale ai cittadini.
“Un giorno dovremo essere così organizzati e determinati da fare in modo che la solidarietà possa porre fine alla sofferenza e alla necessità di ricorrere alle lotte. Abbiamo già aspettato troppo a lungo.”
Non è un film perfetto The old oak, forse neppure uno dei migliori di Ken Loach (nonostante Yara, un dei suoi personaggi femminili più riusciti, nella migliore tradizione da Ladybird Ladybird, a Carla’s song), ma non è questo il punto.
Tornano in mente gli ultimi versi di Traducendo Brecht, importante poesia di Franco Fortini:
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. (…)
La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Ken Loach è necessario per il suo lavoro di sottrazione, per la “giusta distanza” nel raccontare gli orrori dell’indifferenza quotidiana così come il sentimentalismo degli affetti, per la sua resistenza laica.
Ci regala un film struggente, lucidamente disperato, anche nel tentativo estremo di richiamare alla speranza.
Una vecchia quercia Ken: mi ricorda una straordinaria attrice inglese che pochi anni fa, ultraottantenne, ha debuttato alla regia col documentario The sea sorrow. Vanessa Regdrave ha condiviso, nella sua lunga e talentuosa esistenza, molte battaglie politiche e sindacali con Ken Loach, non ultima quella sui migranti.
Diversissimo il suo approccio e la scelta di un documentario in senso stretto, arricchito di testimonianze e fonti storiche, ma simile il radicale minimalismo, tutto anglosassone, che muove e commuove nel profondo. Una commozione che spinge ad agire, a reagire “Non per carità, ma per solidarietà”.
Carla Babini
[dicembre 2023]
P.S. La Biblioteca Classense (luogo prezioso e pieno di tesori) ha copia di The sea sorrow.