A margine dell’incontro ravennate, culminato con la lettura in wolof del I canto dell’Inferno, abbiamo incontrato Pap Khouma, autore di questa straordinaria traduzione.
L’esperienza dantesca è l’ultimo passo del percorso vario e poliedrico di un intellettuale a tutto campo. Scrittore e giornalista, cofondatore di El Ghibli e della casa editrice Kanaga, autore di opere di successo, docente, formatore, attivista da sempre impegnato su tematiche legate all’intercultura e ai diritti, si è recentemente misurato con una sfida che si avvicina al “tradurre l’intraducibile”, di cui scriveva Paul Ricœur.
La conversazione, fluida e scorrevole, ha toccato molti temi, spaziando dalla letteratura alla società: proviamo di seguito ad offrirne una sintesi.
Si è partiti parlando di Dante, di come in Senegal sia conosciuto solo a livello accademico, essendo insegnata per lo più la letteratura francese. In Italia invece, Dante pare essere patrimonio comune, alcuni suoi versi sono spesso citati anche in conversazioni quotidiane, ma la conoscenza approfondita dell’universo dantesco è ancora patrimonio di pochi e dobbiamo molto a manifestazioni come quelle legate al 700° della morte, che rendono ancora e sempre attuale la sua voce.
Pap Khouma è stato coinvolto in questo progetto, grazie al programma di cooperazione Italia-Senegal che da molti anni tocca la città di Ravenna e in particolare il Teatro delle Albe, nonché l’esperienza di Mandiaye N’Diaye, alla cui memoria è stata dedicata la giornata di studi del 30 luglio scorso. Dall’Istituto Italiano di Cultura a Dakar è partita la richiesta di tradurre il I canto dell’Inferno in wolof, una sfida accettata con entusiasmo e che ha richiesto un impegno durato mesi, in pieno lock-down da Covid. Anche Khouma credeva di conoscere Dante, vivendo in Italia dagli anni ’80, pur non avendo studiato nel nostro Paese. Si è reso conto subito, però, della grande responsabilità di dar voce ad un autore così complesso in una lingua inaccessibile agli esperti italiani e francesi e si è confrontato con molti dantisti e studiosi prima di decidere di lavorare direttamente sul testo originale, in fiorentino del ‘300, trasponendolo in wolof.
Tanti i problemi da affrontare, in primis linguistici: era fondamentale optare per una variante wolof il più possibile scevra da prestiti di lingue quali il francese, l’inglese, il portoghese, l’arabo, per offrire maggiore autenticità.
E poi la scelta di trasporre le terzine dantesche in rima ragionando sul ritmo, contemplando aspetti culturali africani. Ad esempio, quando appaiono le fiere, Khouma introduce il ritmo del “bakku”, che accompagna spesso le manifestazioni di autoesaltazione degli odierni lottatori dell’arena senegalese, quando intendono intimorire l’avversario. Si tratta di una sorta di panegirico proprio dei griot, “tagge” (si legge tagh) in wolof. O ancora, la scelta di privilegiare la modalità in cui s’invocano gli spiriti, trasponendo in questo modo l’oltretomba della Commedia. Gli spiriti si chiamano in lingua wolof “rab o rap” e sono invocati da millenni con ritmi di tamburi e parole scandite. Più o meno come i ritmi adottati dagli attuali rappers afroamericani.
Ma come rendere l’apparato simbolico di cui è così ricca la lingua di Dante?
Un esempio tra tutti: il veltro citato nel I Canto su cui si sono impegnati studiosi per secoli. Un’interpretazione fra le più accreditate lo riconduce al significato di cane da caccia, ma in Senegal questo animale rimanda ad accezioni non positive, dunque era necessario un recupero del suo significato simbolico: la scelta è caduta sul termine “eroe”, in modo da facilitarne la comprensione.
L’impegno di tanti mesi, la convivenza con la Commedia e il personaggio di Dante Alighieri, hanno naturalmente creato nel tempo una sorta di familiarità.
Per noi ravennati il “sommo Poeta” è anche simbolo di esilio. Il Dante migrante, una condizione esistenziale che da sempre accompagna l’umanità, lo rende attuale e molto vicino anche al percorso di Khouma. L’erranza, termine che gli piace molto, fa parte della sua esperienza personale ed è divenuta nel tempo un elemento positivo, da quando ha compreso il senso “dinamico” di identità, nel passaggio graduale dal subire i cambiamenti ad esserne parte attiva. Il poter oggi passare senza soluzione di continuità da una lingua e da una cultura all’altra, tra Italia e Senegal, è frutto di una conquista maturata nel tempo che ci fa riflettere su un aspetto fondamentale del concetto di identità. Un’identità composita, capace di trasformarsi nel tempo e nello spazio in base alla molteplicità di incontri e di esperienze che si sedimentano nella nostra storia.
In questa prospettiva l’opera del traduttore rimanda a quella del mediatore culturale. Quel trasporre il senso da una lingua all’altra, consapevoli della distanza, ma ancor più della necessità di superarla per avvicinarsi, è metafora delle relazioni umane.
Pap Khouma, dicevamo, è arrivato in Italia per la prima volta nel 1984, per poi tornarci stabilmente nel 1986. In quegli anni, diversamente da altri Paesi, qui non era richiesto il visto di ingresso, e così le esperienze sono state diverse, passando da clandestino, a regolare e infine a cittadino. Imparare l’italiano era prioritario e, gradualmente dalla precarietà di lavori occasionali è arrivato prima al giornalismo, poi alla scrittura. Riteneva importante poter dar voce in prima persona alle tematiche migratorie, spezzando il “monologo” gestito dagli italiani. La sua attività lo ha portato nel tempo ad essere sempre più attivo in ambito culturale e sociale nel nostro Paese: vivendo in prima persona i problemi legati all’accoglienza e all’interazione.
Il suo punto di vista è molto interessante per riflettere sui cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. Ci dice che ha visto progressivamente divenire sempre più presenti i cosiddetti “costruttori di paura”, veicolati da slogan negativi contro i migranti quali “invasione”, “pericoli”. Quelli che Dante classifica nel Cerchio XIII° degli ingannatori e chiama “lusingatori”, “seminatori di discordie”, esistono in tutte le epoche e ciclicamente prendono il sopravvento politico e sociale.
Pensa molto alle nuove generazioni, ai ragazzi spesso figli di famiglie miste, adottati, anche nati o cresciuti qui da famiglie di origine immigrate, che sono a tutti gli effetti italiani perché si sono radicati qui.
E’ di questi giorni, sull’onda dei successi a Tokyo, il riaffiorare del tema Ius soli, se pur limitato al mondo dello sport. Certo, è importante parlarne, ma non ci si può fermare a questo: Khouma pensa alla felicità dei ragazzi di fronte a quelle vittorie, ai loro sorrisi.
Inevitabile immaginare che la sua traduzione di Dante in wolof sia dedicata a loro, ai figli della migrazione. Al nostro futuro.
Carla Babini
[agosto 2021]
Per la foto: credit Nias Zavatta.