Ho scritto questa lettera all’inizio di febbraio di quest’anno, anzi forse dovrei dire subito prima della fine del mondo che conoscevamo. Spesso in questi mesi ho pensato, e ci siamo anche detti tra amici qui a Londra, a come cose che ci sembravano impossibili e insormontabili si siano improvvisamente annullate sotto il carro armato del Covid19. Brexit era una di queste, sospesa per mesi, nella percezione di tutti, per fare posto a una distopia molto più ampia che in un qualche modo paradossale e spaventoso ha per qualche manciata di settimane scardinato e allo stesso tempo rafforzato i confini. La diffusione della malattia in tutto il mondo ha dimostrato nel modo più tragico come i sacri confini tanto sbandierati dai governi di destra in realtà non esistano più, e contemporaneamente ogni nazione ha affrontato l’emergenza come se il mondo intorno non esistesse. Nel mio piccolissimo io e i miei amici e conoscenti italiani a Londra ci siamo comportati da subito come fossimo in Italia, con una quarantena rigidissima, mentre intorno a noi gli amici (e compagni, e compagne!) inglesi quasi ci prendevano in giro. Il resto è storia, resta il fatto che la più grande emergenza sanitaria, economica e sociale dei tempi moderni si è creata perché i confini non esistono più ma è stata affrontata come se ciascuno stato fosse un’isola. Ma isole non siamo, neppure la Gran Bretagna che isola, geograficamente, lo è davvero.
[7 luglio 2020]
To London with love, storia di un amore difficile ma duraturo
Cara Londra,
dal primo febbraio di quest’anno contro il tuo volere non sei più parte dell’Unione europea, mentre io resto europea fino in fondo e senza esitazioni.
Come faremo?
Vivo con te da più di sette anni che non sono moltissimi, anche se un caro amico inglese (anzi, un rarissimo londinese) mi dice che ormai sono una londoner: uso parole che mi identificano come tale, mi irrito se i turisti stanno fermi sul lato sinistro delle scale mobili in metropolitana e cammino sotto la pioggerellina senza neppure accorgermi che alla lunga bagna.
Come mi sento oggi? Come se fosse successo qualcosa che non capisco fino in fondo, che
non riesce a riguardare la mia vita e quella dei miei amici. Siamo italiani, polacchi, inglesi, gallesi, scozzesi, delle isole del canale della manica, canadesi, australiani, e cito solo le nazionalità dei più vicini a me.Abbiamo lasciato il nostro paese per scelta, in età più o meno adulta, abbiamo deciso di venire a Londra perché è cosmopolita, aperta, curiosa, vitale.
Cosa significa per noi che in un referendum tutto il resto del paese (non Londra, la percentuale di chi voleva restare qui era quasi del 60%) abbia deciso di abbandonare l’Unione? Un’istituzione nata sulle ceneri della guerra perché non ci fossero più nazionalismi in Europa, ci si sentisse cittadini di un continente affascinante di storie diverse?
Ci sentiamo, chi più chi meno, come nel Gattopardo, che perché nulla cambi tutto deve cambiare. Certo, le settimane subito dopo il referendum sono state acide e sconvolgenti, ci si guardava intorno con sospetto e ci chiedevamo chi avesse votato Brexit. Pochi, a Londra, sempre troppi ma pochi, soprattutto per chi come me vive ad Est o a Sud, le zone progressiste e “rosse”. Io stessa ho vacillato e pensato che mi ero trasferita in una città europea, scelta perché internazionale, non certo per la monarchia o i club per soli uomini e i fiumi di alcool (tre dei baluardi della cultura britannica). Ho pensato che se non ero bene accetta sarei andata a Barcellona, ad Amsterdam… Ma poi sono rimasta.
Nella vita mi sono sempre mossa parecchio, a cicli di un po’ meno di dieci anni.
Ho cambiato città e fidanzati, peregrinando dal profondo sud da cui viene la mia famiglia, quella Puglia Felix che oramai invade le pubblicità e il cinema ma che negli anni 60 era la periferia dell’impero, alla grassa provincia lombarda di Cremona, dove mio padre dirigeva un ufficio pubblico sul finire degli anni 70. Poi di nuovo in Puglia all’alba dell’edonismo reaganiano dei primi anni 80, un liceo paninaro e Mister Fantasy di notte, l’università a Trieste, incongrua e inafferrabile, per tornare a Bari nel '90 e godermi dieci anni di mare e provincia, coronati da un periodo di pendolarismo funambolico tra l’Italia a Tokyo concluso da un amore nato per telefono e sbocciato a Ravenna. Così ho scoperto una città che dopo Tokyo mi sembrava il giardino dell’Eden, un villaggio turistico pieno di mosaici e monumenti, dove si girava in bicicletta e la vita era dolce e amica. Certo, ero davvero innamorata per la prima volta, ma di un uomo prima di tutto, la città ne era il contorno. E dopo otto anni e la scoperta della vocazione per l’editoria di nuovo ho ripreso la strada, Bologna alla fine degli anni 2000 e poi nel 2013 la decisione di lasciare l’Italia.
E per la prima volta non ho scelto un uomo o un destino, ma una città.
Non ti ho scelta con convinzione, non avevo letto tutto Dickens o Jane Austen, non seguivo ossessivamente le band inglesi, non ero un’appassionata di teatro. Non mi sono trasferita qui perché affascinata dalla cultura britannica; l’Erasmus l’avevo fatto a Edimburgo, Londra la ricordavo rabbiosa e grigia, respingente e triste, attraversata di notte dai pullman che portavano a nord.
Soprattutto ti ricordavo inglese. Rigida, chiusa, illeggibile. Aliena.
Mi sono trasferita qui perché ero andata a trovare un amico e Londra, tra il 2011 e il 2012, per un italiano, era un paradiso: si preparavano le olimpiadi, Boris Johnson, che allora era il sindaco, non sembrava quel mostro di razzismo e arroganza che si è rivelato, o forse semplicemente trattava la città come un gigantesco gioco di costruzioni e questa attitudine ludica giovava alla rigidità che ricordavo e che invece non sembrava esistere più. Nel 2012 Londra era una città colorata e meravigliosa, un’esplosione di possibilità, mentre l’Italia era un paese cronicamente depresso, non ancora precipitato nel baratro del sovranismo e del qualunquismo ma fiaccato da vent’anni di berlusconismo.
Quindi mi sono lanciata tra le tue braccia, Londra.
Non avevo bisogno di nulla, nessun permesso, nessuna formalità.
Eravamo tutte e due europee, bastava il mio passaporto e un indirizzo con un codice postale di lettere e numeri. Il mio era, ed è ancora E32AG, sono stata dall’inizio una fiera eastender, abitante della zona est, quella un tempo pericolosa poi hipster e ora lentamente in via di imborghesimento.
Ho chiesto il NIN, il codice fiscale, ho continuato a collaborare pigramente con una casa editrice italiana, che mi pagava pochissimo e accampava scuse per farlo il più tardi possibile, ma mi sono bastati tre mesi per trovare lavoro in una piccola casa editrice londinese, indipendente e gestita da una donna, dove ho avuto uno stipendio per me all’epoca iperbolico, un ufficio a Soho e tutta l’energia di una città che mi faceva sentire al centro del mondo.
Certo, il 16 giugno del 2016 mi sono svegliata in un incubo, ma tu hai retto.
Mi hai dimostrato che se il cuore di una città è sano, contro le malattie si può lottare. Il nuovo meraviglioso sindaco, quarantenne, mussulmano, di sinistra, che ho votato ed eletto anche io, perché da europea avevo diritto al voto nelle amministrative della città di residenza, si è subito schierato con l’Europa, contro il governo conservatore, difendendo l’apertura della città e il suo DNA internazionalista.
E ho deciso di restare, di lottare anche io con i miei amici britannici e londinesi non britannici, di difendere la nostra città e dimostrare che non è razzista, chiusa e fobica. Il giorno che ho ottenuto il Settled Status, il permesso per restare in Inghilterra come residente a tempo indeterminato (non più automatico una volta che il paese fosse uscito dall’Unione) le mie colleghe britanniche in ufficio, capeggiate da una amica molto cara, scozzese delle isole Shetland, mi hanno regalato un panetto di burro avvolto nella bandiera dell’Irlanda del nord, un mazzolino di narcisi avvolti nella bandiera dell’Inghilterra, una bottiglia di sidro artigianale avvolta nella bandiera Gallese, un pacchetto di salmone affumicato avvolto nella bandiera Scozzese e un biglietto con sopra la Union Jack che diceva “noi ti vogliamo qui, non ci abbandonare”.
E io non la abbandono la mia Londra, che amo e sento casa come sento casa la mia bella città mediterranea del Sud. E come sento quasi casa Parigi perché ci abitano due amiche carissime, una toscana e una parigina, Monaco di Baviera per la mia amica tedesca, Amsterdam per una pugliese ormai naturalizzata dopo più di vent’anni, Barcellona per tanti amici catalani, spagnoli e un caro amico del Marocco…
Ich bin ein Europäer, ma Londra è europea come me.
Elena Battista
Nata a Bari nella seconda metà degli anni 60, Elena Battista è una traduttrice, agente letteraria ed esperta di diritti internazionali di traduzione. Interprete di conferenze per oltre dieci anni dal 1990, si è poi occupata di marketing internazionale ed è approdata all’editoria all’inizio degli anni 2000, prima a Ravenna poi a Roma, per trasferirsi a Londra nel 2013. Fino ad aprile del 2020 è stata International Rights Director per una piccola casa editrice con sede a Farringdon e da luglio 2020 collabora con una piccola agenzia che si occupa della diffusione dei diritti di traduzione di libri illustrati per ragazzi e adulti. Segue alcuni autori di narrativa e illustrazione e si occupa di traduzione per il teatro (David Auburn, Will Eno e Anders Lustgarten tra gli altri).
Dal 2018 fotografa l’amore nelle grandi città e raccoglie le foto nel suo TheLoveproject; nell’autunno del 2021 uscirà il suo primo libro, una graphic novel su Londra, scritta a quattro mani con Carl Lawrence e illustrata da Monica Auriemma.
Il sito internet di Elena è www.paroleparoleparole.com