Nomadland, il film di Chloe Zhao vincitore della Palma d’oro 2020 a Venezia. Una straordinaria Frances McDormand è Ferne, una donna di mezza età che, dopo aver perso tutto durante la recessione americana del 2008, sceglie il nomadismo. Il mini-bus diventa la sua casa, gli sconfinati paesaggi del West America il suo giardino, gli amici sono quelli che incontra per strada, quelli che vivono come lei: i nuovi nomadi d’America.
Mentre guardo il film penso a tutta quell’umanità che si sposta, lasciando famiglia, casa, amici.
A quelli che saltano dal nido per librarsi in volo verso orizzonti sconosciuti in cerca di qualcosa di meglio. Altrove. Forse.
Vivo a Londra da trentatré anni. Anche io ho barattato la precarietà di un futuro segnato per la speranza di un avvenire diverso. Un avvenire mio. Con la voglia di mettermi in gioco a costo di perdere tutto.
Ho lasciato Palermo per questioni personali. Una famiglia difficile. Una prospettiva di vita a cui volevo sottrarmi. A tutti i costi. Vanità la mia? Forse.
Chi emigra negli anni 50 in Inghilterra ha ben altre ragioni. A Bedford, poco distante da Londra, in quegli anni arrivano oltre 20.000 italiani, tra cui molti meridionali e siciliani. I siciliani vengono dall’agrigentino e dal calatino. Gente che trova lavoro nelle coltivazioni sotto vetro, nelle serre ma sopratutto nelle fabbriche di mattoni. Lasciano una Sicilia devastata dalla miseria del dopoguerra.
In Inghilterra trovano lo squallore degli ostelli.
Dice uno di loro: “La camerata dove si dorme, sembra una camerata di soldati, ma che almeno fosse pulita tutta zozza e umida …sembriamo tutti schiavi.
Non era una casa come so fatte i case insomma era brutto proprio; in questi ostelli non c'era nienti, ho visto quelle brande andando lì e le valigie le ho messe sulla branda. Ho fatto un coso di legno, una specie di comodino che mi sono fatto io e ci ho messo le valigie e lì quello era l’armadio”
Trovano il cibo inglese “patate patate sempre patate” al quale non si abituano mai.
Trovano però il lavoro.
Lavoro sottopagato ma sicuro e grazie al quale conquistano quell’autonomia materiale impossibile in patria. Ma non solo. Conquistano una cosa di cui vanno particolarmente fieri: il rispetto della popolazione locale.
Questa povera gente ignorata in patria, in Inghilterra viene finalmente ammirata e rispettata per l’onestà e la dedizione al lavoro. Tutti danno il meglio di sé. Vanno avanti con la speranza di riuscire un giorno a richiamare la famiglia.
L’Inghilterra è triste ma se lavori sodo prima o poi riesci a comprarti una casa e magari anche a metterti in proprio.
L’Inghilterra è triste, ma se te lo meriti ti premia.
Meritocrazia, ovvero potere del merito. In Inghilterra funziona cosi. Va avanti chi merita. Le raccomandazioni non sono ben viste. Anzi, è meglio non averne.
Meritocrazia, la parola magica che attrae i ragazzi degli anni ‘80 e ‘90, quelli che hanno voglia di mettersi alla prova, di uscire dagli schemi. Sono loro gli emigrati del lifestyle come ben li definisce Marco Niada, ex inviato del Sole 24 ore a Londra.
Arrivano a frotte. Giovani laureati fuoriusciti da prestigiose università italiane ed estere invadono Londra. Capitale della finanza mondiale, Londra ha sempre lavorato bene con i soldi. E gli italiani ci sanno fare. Sono svelti, disinibiti, affascinanti. Vivono tutti fra Chelsea e South Kensington. Li ho frequentati anch’io in quegli anni. Ragazzi che, dopo ore davanti agli schermi con ritmi di lavoro massacranti, il week end lo passano mangiando ostriche da Wiltons e bevendo Crystal da Annabel’s. Ma non è solo la finanza ad attrarre questa emigrazione “pettinata”, settori come quello scientifico, artistico, quello della tecnologia e dell’ospitalità sono sempre ben felici di pescare nel bacino delle nostre eccellenze.
In Inghilterra poi si studia sul serio. Scuole e università sono fra le più prestigiose del mondo. Nei primi anni 2000 intere famiglie lasciano l’Italia affinché i figli crescano in un paese dove l’istruzione ha un peso, dove un titolo universitario può aprirti le porte del mondo. Questi ragazzi crescono felicemente bilingui. Snobbano l’Italia, se non per le vacanze, e prendono in giro i genitori per il loro inglese stentato. Perché loro sono British e ne vanno fieri. Sono gli emigrati dello studio del 2000.
Tralascio per mancanza di spazio le valanghe di giovani e meno giovani che dalla fine degli anni ‘90 ad oggi non hanno mai smesso di affluire principalmente a Londra. Ci hanno provato facendo ogni tipo di lavoro, vivendo in 10 in case umide e malandate, parlando male l’inglese, sopportando disagi di ogni tipo, ma alla fine per molti “il giuoco ha valso la candela” perché qui lavorano, qui possono intravedere un futuro.
E poi nel giugno 2016: Brexit. Non se lo aspetta nessuno. Il crollo di un mito. Sogni infranti. Delusione profonda. Un paese che ti ha accolto a braccia aperte e che ora può decidere di rimandarti a casa. Sì, perché nei primi mesi circola proprio la parola “deportazione”. Famiglie residenti in Inghilterra da anni, con figli, lavoro e case ricevono lettere dal Governo con scritto “prepare to leave”.
Che fare?
C’è chi dice basta e torna a casa di corsa. C’è chi prende il secondo passaporto e diventa Inglese per paura di non poter restare. C’è chi si guarda intorno e alla fine aspetta. E forse aspettare conviene. Aspettare che tutto si assesti mettendo la rabbia da canto.
Un mio amico inglese mi suggerisce di ascoltare “Ci sarà sempre un’Inghilterra”, una canzone patriottica inglese del 1939 diventata popolare alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La canta Vera Lynn e in poche settimane è l’idolo della Nazione.
A quanto pare in quei mesi la cantano tutti e mentre la cantano sorridono. E il mio amico in inglese continua: “We British people, we have always looked at our past to create our future” (noi Inglesi abbiamo sempre guardato al nostro passato per costruire il nostro futuro).
Marco Gambino
[Febbraio 2021]
Photo credit: Antonio Sansica