The deep blue between è il titolo originale del secondo romanzo tradotto in italiano della ghanese Ayesha Harruna Attah, una delle più promettenti autrici africane contemporanee, per i tipi di Marcos y Marcos, reso nella nostra lingua da Francesca Conte.
In copertina la suggestiva immagine ideata dall’illustratrice croata Vendi Vernić: due giovani donne indossano abiti tradizionali africani e, seppur distanti, sembrano legate da un lungo e sinuoso drappo blu che evoca la fluidità dell’acqua.
Ci vengono presentate così Hassana e Husseina, le protagoniste di questa storia potente ed evocativa: due sorelle gemelle che dopo esser state forzatamente separate da bambine e vendute in schiavitù, vivranno esperienze durissime di prigionia e liberazione, ritrovandosi e riconoscendosi per lungo tempo solo in sogno.
È quel blu profondo a dividere ed unire al contempo, reso magnificamente dall’intraducibile titolo originale, dove il between pare giocare tutte le sfumature della polisemia, rimandando sia all’età della pre adolescenza che alla particolarità del legame tra gemelle.
Così come in I cento pozzi di Salaga Attah attinge a piene mani dalla storia, complessa e variegata, della sua famiglia di origine: prendendo spunto da antenate che hanno vissuto la schiavitù, dà voce a figure di donne che lottano per affermare la propria individualità contro soprusi e pregiudizi.
Il grande azzurro può essere letto come ideale continuazione dello straordinario romanzo precedente: le due gemelline, personaggi descritti all’ombra delle due protagoniste Aminah e Wurche, guadagnano ora il centro della scena.
Ancora una volta le voci e le storie di due donne, del loro percorso di soprusi e perdite, di schiavitù e affrancamento nell’Africa pre-coloniale di fine ‘800. Voci che si alternano nella narrazione.
Hassana, la gemella più espansiva ed estroversa, resta in Africa e, grazie all’educazione ricevuta presso la Basel Mission, impara a leggere e scrivere e diviene insegnante: è dunque legittimata a raccontare la sua storia in prima persona.
Husseina invece, più timida e schiva, per una serie di “passaggi di proprietà” si ritrova prima a Lagos in una comunità di Aguda (schiavi liberati, rientrati dal Brasile in Nigeria, importandovi pratiche e credenze sudamericane), poi affronta il lungo viaggio verso Bahia. Qui abbraccia una religione sincretica praticata dagli ex schiavi e diviene seguace di Yemanjà, dea delle acque.
Con grande abilità narrativa Attah ci consegna un vero e proprio romanzo di formazione: il graduale affrancamento culturale di Hassana è reso magistralmente nell’evolversi della sua scrittura, così come il percorso di Husseina, più mitico e intimamente legato al sincretismo dei riti ancestrali, è affidato alla narrazione in terza persona.
Attraverso i sogni le due sorelle manterranno vivo il legame fortissimo che le unisce: è il potere di Ibeji, protettore dei gemelli che assiste a ricongiungere “chi cerca e chi chiama”.
L’elemento acquatico, quel liquido amniotico che pervade la narrazione rendendola fluida e densa di immagini evocative, è in realtà il terzo protagonista della storia, di un viaggio alla ricerca di sé attraverso lo spazio e il tempo, verso la liberazione.
Fluttua. Attorno a lei c’è una musica dolce che la culla. Diviene acqua, tenuta a galla da una forza che è come casa, come onde, come l’abbraccio di una madre.
Attah, profondamente interessata al passato della “sua gente”, ci affida la memoria di due donne nate in Costa d’Oro alla fine dell’800, ma sottolinea la forte continuità tra passato e presente.
Ancora oggi, nel mio angolo di continente, lottare per essere libere significa lottare per i diritti umani fondamentali, quello di sognare, di essere ascoltata, di essere considerata valida, di poter semplicemente vivere in pace.
Come non sentire un forte richiamo all’attualità? Come non pensare a chi oggi è costretto ad abbandonare il proprio paese affidando al grande azzurro la speranza di una vita degna di questo nome?
Carla Babini
[giugno 2021]