Il sociologo Francesco Carchedi, esperto di processi di politiche migratorie e coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto, ha rilasciato un’intervista per Collettiva-CGIL sul caporalato ad agosto scorso https://www.collettiva.it/copertine/italia/caporalato-senza-confini-v1vxnqjy
Seguiamo con interesse da anni il suo lavoro e gli abbiamo chiesto di contestualizzare e aggiornare le sue riflessioni sul tema.
Ci ha inviato queste righe che condividiamo coi nostri lettori.
"E’ un fatto oramai inconfutabile che nel settore agro-alimentare (ed anche in altri settori produttivi) l’innesto di manodopera di origine straniera, comprensivo delle maestranze provenienti da paesi dell’Europa dell’Est e da quelli extraeuropei (soprattutto da alcuni paesi asiatici, africani e latino-americani), abbia una funzione insostituibile. Questo forte e consistente innesto è avvenuto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, registrando una accentuata accelerazione nell’ultimo decennio/quindicennio concomitante con la contemporanea riduzione dell’offerta autoctona, dovuta, in ultima analisi, ai bassi salari e alla scarsa protezione sociale che – tra gli altri fattori - ne hanno arrestato il ricambio generazionale. A questa riduzione, con diseguale peso nelle differenti macro-ripartizioni del nostro paese, non è conseguita per i lavoratori e lavoratrici stranieri/e una accentuata politica di assestamento/integrazione orientata alle pari opportunità di inquadramento e di trattamento contrattuale, come previsto dalle norme correnti. Al contrario, date le difficoltà di accesso alla piena cittadinanza giuridica e dunque al sistema dei diritti ad essa correlati, la loro collocazione nel mercato del lavoro è andata concentrandosi nelle sue stratificazioni inferiori, ossia come bassa forza dequalificata. Cosicché, in genere, i rapporti di lavoro che vengono improntati in conseguenza di queste condizioni di inferiorità e sudditanza, non possono che determinare forme diverse di sfruttamento e di sofferenza occupazionale: sia da parte di imprenditori irresponsabili che da parte di intermediari illegali che gli stessi imprenditori ingaggiano per reclutare manodopera (utilizzando l’orami arcinoto “caporale”). La cornice entro il quale questi rapporti di lavoro si determinano e trovano spazio per perpetuarsi è delineabile nel perimetro dell’economia non osservata, e nello specifico in quella sommersa. Questa per l’appunto è costituita dal lavoro irregolare e dal lavoro svolto completamente al nero che si contrappongono a quello regolare. Il peso che queste tre forme occupazionali assumono nel panorama del mercato del lavoro nazionale è stimato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (2020, pp. 102-103). Il lavoro regolare, dunque, prescindendo dal settore produttivo, ammonta a circa il 60% (definito in assenza di reddito sommerso), mentre il lavoro grigio (con reddito sommerso a differenti gradazioni) al 30% e il lavoro nero per il restante 10% (quando il reddito sommerso è totale). Il lavoro agricolo e quello domestico hanno percentuali di lavoro irregolare più alte: il primo raggiunge il 38,0%, il secondo il 46 (ISTAT, 2023).”
Sono cifre impressionanti, che danno conto di quanto accade nello specifico del settore agro-alimentare, ma è ben noto che lo sfruttamento e il caporalato sono fenomeni purtroppo consolidati anche in altri settori, quali l’edilizia, il turismo, la logistica, per fare solo alcuni esempi.
Condividiamo con forza la conclusione dell’intervista di Collettiva: “Secondo Carchedi sarebbe necessaria la forza, o meglio la volontà politica, di acquisire le entrate di questa fascia dell’economia sommersa, in gran parte prodotta dal lavoro gravemente sfruttato. Un lavoro che ha prodotto un esercito di lavoratori poveri, che lavorano tutto il giorno ma hanno condizioni di vita inaccettabili”.
La redazione
[novembre 2024]
foto credit: archivio redazione