Se volessimo ritrovare oggi quella “petite cabane rustique” di cui parlava l’abate Marc-Antoine Laugier nel suo imprescindibile Essai sur l’architecture (1753), umile costruzione che costituisce la prima forma di “riparo” dell’uomo sulla terra, bisognerebbe andare a ricercarla non tanto presso le popolazioni cosiddette primitive, sempre più rare e accerchiate dalla civilizzazione, ma nelle baraccopoli di quell’Europa così fragile e impaurita presso cui vive un’umanità che cerchiamo di far finta di non vedere. Un esempio di queste costruzioni di “necessità” si trova nel bel volume che recensiamo, reso possibile grazie al contributo del Comune di Ravenna, Assessorato Immigrazione. L’autore di queste immagini è Luca Gambi, un allievo della scuola di Guido Guidi, che col tempo si è sempre più indirizzato, com’è scritto nella nota introduttiva di Carla Babini, docente di lingue straniere e di italiano e addetta culturale per il Ministero degli Affari esteri in alcune captali europee, alle sue fotografie, dal titolo Tracce, verso “una personale e intensa riflessione sulla fotografia come strumento di osservazione e di ascolto della realtà”, ma una “realtà frammentata e frammentaria, la cui complessità può e deve indurre ad ampliare lo sguardo di chi ne osserva gli infiniti segni” (p. 55). In particolare le fotografie a p. 59, 60, 65, 69, 77 e 81 mostrano la stessa tecnica utilizzata da quel primo uomo, gettato sulla terra, protagonista del racconto di Laugier: “Quelques branches abbatues dans la forêt sont les matériaux propres à son dessein. Il en choisit quatre des plus fortes qu’il éleve perpendiculairement, & qu’il dispose en quarré. Au-dessus il en met quatre autres en travers; & sur celles-ci il en éleve qui s’inclinent, & qui se réunissent en pointe de deux côtés. Cette espece de toit est couvert de feullies assez serrées pour que ni le soleil, ni la pluie ne puissent y pénétrer”. E Laugier conclude: “& voilà l’homme logé”.1 Con qualche piccola differenza, nel caso delle cabanes fotografate da Gambi, rispetto a questa del philosophe Laugier: al posto delle foglie le prime utilizzano lamiere ondulate, lastre di compensato, teloni di plastica e cellophane, tenuti insieme – queste sì, ora come allora, da semplici corde. Sempre Laugier aveva scritto che l’invenzione della cabane rustique era nata nella mente dell’uomo per la necessità di “se faire un logement qui le couvre sans l’ensevelir”.2 Vale lo stesso per i migranti di San Ferdinando in Calabria e di Ventimiglia in Liguria – dunque nessuna differenza tra Nord e Sud – le cui “dimore” sono state fotografate da Gambi? Perché Laugier usa proprio il termine “loger”, quasi simile in pronuncia al suo cognome. Alloggiare, appunto. Come noto, Martin Heidegger distingue tra “alloggio” e “dimora”: tra behausen e wohnen. Una differenza non da poco. Il controverso magister di Meßkirch riconosce come “nell’odierna crisi di alloggi, anche l’avere un alloggio in questo senso è già qualcosa di rassicurante e consolante”.3 Ma questo non è il vero abitare. Figuriamoci allora se lo è il vivere in una moderna cabane rustique – per chiamarla col suo vero nome: baracca. E, ciononostante, Gambi coglie quei segni di umanità che quei costruttori-alloggiati hanno lasciato su quelle povere strutture: come la scritta “Chiesa dell’Unione africana”, a contrassegnare come tale una baracca che non si distinguerebbe in nulla dalle altre. O il cartellone con la pubblicità dei “Chips land” di Amsterdam, con la classica ammiccante olandesina che invoglia ad acquistare le patatine al cartoccio, tabellone recuperato chissà dove. Ma ogni piccolo dettaglio è un segnale della volontà di “radicarsi” in qualche maniera, nonostante tutto. E poi gli stracci. Quegli stracci lasciati sulla spiaggia, accanto a un muro in cemento segnato dai graffiti di qualche writer, relitti abbandonati che ritornano, “sublimati” nella Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, citata nel libro perché esposta, grazie soprattutto alla Caritas, nella chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia, eccentrica “santa protettrice” pagana dei diseredati. La caratteristica delle foto di Gambi è che non ci sono le persone, ma solo indizi e tracce, appunto, della loro presenza. Si tratta, come scrive Babini, di un voluto “discreto e rispettoso punto di osservazione, come a dirci quanto sia necessario esercitare un paziente ascolto dell’altro per poterne testimoniare la presenza” (p. 55).
L’altro fotografo, Luciano Nadalini, fondatore della rivista “Mongolfiera”, della casa editrice di libri fotografici “Camera Chiara Edizioni”, collaboratore de «l’Unità» e autore di reportage fotografici in diversi paesi del mondo, nonché autore di un volume e di una mostra dal titolo: “Ravenna – immigrazione: un mondo a parte?”, al contrario, ritrae proprio le persone: nel loro lavoro di operai (p. 12) – sempre più in percentuale, migranti – e nel luogo della socializzazione, la scuola primaria e secondaria (pp. 14 e 16). E proprio a questa istituzione così fondamentale e così in difficoltà com’è sotto il tiro incrociato proveniente da più parti, dedica il suo intervento Marina Mannucci. Con un passato d’insegnante free lance nei campi nomadi, presso i non vedenti e tra i bambini di Tuzla, oltre che con bambini autistici e problematici, Mannucci parla di una scuola, ancora sostanzialmente di là da venire, in cui si insegnino soprattutto “competenze esistenziali” (p. 41). Nel saggio si parla dell’esperienza con alcuni bambini rom di Ravenna, in cui proprio questi ultimi diventano “mediatori culturali” della famiglia, citando a supporto di questa esperienza sul campo, Edgar Morin4 e Christian Raimo.5
Carla Babini, nella sua introduzione, Tracce migranti - Nuovi paesaggi umani, presenta l’intero volume evidenziando il suo carattere “collettivo”, a più voci, concludendo giustamente che, trattandosi in fondo di un libro principalmente fotografico, “Le immagini sono molto più forti delle parole” (p. 9). Maurizio Masotti, il curatore, formatore linguistico, conduttore di corsi per insegnanti italiani e adulti immigrati e coordinatore di diversi progetti con vari fotografi italiani, ripercorre l’esperienza iniziata vent’anni fa col convegno all’Hotel Mocadoro di Ravenna, dal titolo “Il Villaggio Globale e l’Erranza del Migrare”. Da allora il fenomeno è cresciuto fino a diventare il principale oggetto di discussione, divisione e speculazione politica nel nostro Paese e in Europa e l’autore, alla fine del suo testo, cerca di smontare alcuni luoghi comuni legati proprio al fenomeno migratorio.
Il testo più lungo è quello di Paolo Montanari, funzionario e dirigente presso la Provincia di Ravenna, esperto di politiche di sostegno e di statistica, basato su cifre e dati che mettono in luce l’ideologia e la mancanza d’informazione che sta dietro alle affermazioni di una parte della classe politica italiana, quella attualmente al potere. La realtà, dati alla mano, è ben altra: “Dimezzando i flussi migratori in cinque anni perderemmo, in aggiunta, una popolazione equivalente a quella odierna di Torino, appesantendo ancora di più il rapporto fra popolazione in età pensionabile e popolazione in età lavorativa. Azzerando l’immigrazione, secondo le stime di Eurostat, perderemmo 700.000 persone con meno di 34 anni nell’arco di una legislatura” (p. 29). Il che lo porta a queste conclusioni: “Per vincere la sfida e la paura serve anche una nuova cultura della diversità, in grado di andare oltre la tolleranza e riconoscere in chi è diverso un potenziale valore aggiunto all’interno di un processo di crescita comune. Se non seguiamo come Paese questo percorso, continueremo a subire l’immigrazione, anziché renderla parte integrante della costruzione di un comune futuro migliore” (p. 30).
Francesco Bernabini, esperto nel campo dell’immigrazione e operatore del Centro per Immigrati del Comune di Ravenna, racconta, con evidente partecipazione, essendone stato coinvolto per molti anni, l’esperienza, unica in Italia, del Festival delle Culture, giunto alla XII edizione. Il Festival, nato sotto la direzione artistica di Tahar Lamri, scrittore di origine algerina e ravennate di residenza (ma un po’ uomo del mondo), dal 2013 ha deciso di scommettere sulla “progettazione partecipata”, attraverso “assemblee plenarie aperte a tutta la cittadinanza in cui cittadini italiani e migranti potessero liberamente confrontarsi sull’idea stessa del Festival, definirne i temi e le linee programmatiche” (p. 35). Dopo qualche periodo di assestamento, la formula ha funzionato e ora il festival è un momento atteso in città sia dai migranti che da una parte significativa di “locali”.
Un’ultima cosa. Accanto alle foto di Gambi e Nadalini, sparse in mezzo al volume, compaiono alcune foto di famiglia scattate dai migranti stessi. Conservare le foto è una caratteristica comune a tutti coloro che si spostano dai loro paesi di origine (italiani compresi). Lo sottolineano Gambi e Masotti in un testo firmato a due mani. Solo dopo aver conquistato la fiducia dei migranti, è stato possibile aver in prestito le loro foto per poterle riprodurre. Queste foto anonime costituivano parte integrante del progetto “Album di famiglia”, sezione della mostra “La vita degli altri”, portata in giro in molte città d’Italia ma anche all’estero – a Berlino e Vienna – dai due autori nel 2008.
Un libro, questo, da raccomandare a tutti, ma soprattutto a quei politici e amministratori che vogliano abbandonare la facile strada della demagogia imperante, nella rincorsa affannosa del consenso, e che sappiano soprattutto far tesoro dell’invito finale consegnato ai Ringraziamenti: “Questo Paese che invecchia sempre di più ha bisogno di nuove generazioni e di linfa vitale che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: anche qui, nella vecchia Capitale dell’Impero romano dove abbiamo scelto di vivere, c’è bisogno di nuovi ‘barbari’ (dal greco βάρβαρος, straniero) per dare un nuovo corso alla storia”.
Alberto G. Cassani
Articolo pubblicato per la prima volta su «Anfione e Zeto. Rivista di architettura e arti», n. 29, 2019
Note
1. Marc-Antoine Laugier, Essai sur l’architecture, à Paris, Chez Duchesne, MDCCLIII, p. 12.
2. Ibid.
3. Martin Heidegger, Bauen Wohnen Denken, in Mensch und Raum, Herausgegeben im Auftrag des Magistrats der Stadt Darmstadt und des Komitees Darmstädter Gespräch, 1951, von Otto Bartning, Darmstadt, Neue Darmstädter Verlangsanstalt, 1952, pp. 72-84 (ora in Id., Vorträge un Aufsätze, Teil III, Pfullingen, Verlag Günther Neske, 1954, pp. 153-159), trad. it. a cura di Gianni Vattimo, Costruire abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, pp. 96-108: 96.
4. Cfr. Giuseppe Milan (Ordinario di Pedagogia interculturale e sociale all’Università di Padova) in www.unimondo.org/ Notizie/Un-educazione-ben-fatta-a-partire-da-Edgar-Morin-140306 [data di ultima visualizzazione: 21 giugno 2018]; www.doppiozero.com/materiali/sa- la-insegnanti/edgar-morin-insegnare-vi- vere [data di ultima visualizzazione: 21 giugno 2018].
5. Cfr. Marco Romito, Christian Raimo, Tutti i banchi sono uguali, in «Doppiozero», 28 novembre 2017 [www.doppiozero.com, data di ultima visualizzazione: 21 giugno 2018].
Alberto Giorgio Cassani, laureato in Architettura al Politecnico di Milano, è dottore di ricerca in Conservazione dei beni architettonici. È docente di Prima fascia di ruolo di Elementi di architettura e urbanistica all’Accademia di Belle Arti di Venezia e, dal 1995, insegna a contratto la stessa materia all’Accademia di Belle Arti di Ravenna; è inoltre docente a contratto di Storia dell’architettura al Dipartimento di Beni Culturali, Università di Bologna, sede di Ravenna. È membro del comitato scientifico di «Anfione e Zeto. Rivista di architettura e arti», curatore dell’«Annuario» dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, redattore di «Albertiana» (rivista della Société Internationale Leon Battista Alberti di Parigi) e collabora con «Casabella».