Il regista e fondatore di Cantieri Meticci racconta il rapporto tra azione comunitaria, pratica artistica e spazio pubblico nello scenario post pandemico.
Cantieri Meticci nasce nel 2015 in seguito all’esperienza maturata tra il 2005 e il 2014 con la Compagnia dei Rifugiati del Teatro dell’Argine. Quale è stata la scintilla che ti ha convinto a creare Cantieri Meticci?
L’impulso che ha dato la luce a Cantieri Meticci è figlio dei cambiamenti che le nostre città si trovano a vivere in questi anni. Cantieri Meticci nasce dall’esigenza di dare voce a storie personali e collettive di una grande eterogeneità e di farlo attraverso forme artistiche capaci di mettere in risalto queste diversità.
E dove si inserisce Pietro Floridia in questo contesto?
In quegli anni ho viaggiato molto per lavoro: Africa, Medio Oriente, Sud America…
Facendo teatro lontano dall’Italia mi sono trovato a mettere in discussione un certo modello di teatro dove l’incontro con l’altro non era centrale, sentivo una necessità di maggior dialogo.
Cantieri Meticci è un collettivo di artisti che provengono da tutto il monto, più di 20 nazionalità.
Sì, se possibile l’eterogeneità rispetto alla Compagnia dei Rifugiati si è ulteriormente allargata: questa infatti era composta quasi esclusivamente da richiedenti asilo e rifugiati politici. Con il passare degli anni ci siamo accorti che questo progetto poteva diventare un tetto per qualcosa di più e ad un teatro per i rifugiati abbiamo preferito il concetto di meticciato sociale e mescolanza. Non solo per quanto riguarda la provenienza degli artisti ma anche per i linguaggi: oltre al teatro, Cantieri Meticci si occupa di artigianato, illustrazioni, ospitalità e molto altro.
Al centro della tua attività però rimane il medium teatrale e il significato sociale ad esso collegato. Può il teatro essere un mezzo per ricucire lo iato generatosi tra funzione dello spazio pubblico come luogo di incontro e l’esperienza pandemica che nei fatti ha deprivato questi luoghi del loro significato sociale?
Io mi auguro di sì e il mio lavoro si concentra esattamente in questa direzione. Credo sempre più che sia necessario raddoppiare i luoghi della cultura nello spazio pubblico, a maggior ragione dopo la pandemia. Oggi c’è il rischio che la fruizione culturale all’interno degli spazi della cultura come li abbiamo sempre pensati diventi un privilegio di pochi. Certo avere un luogo, una casa, all’interno del quale dare ospitalità è importante ma bisogna oggi più che mai farsi nomadi.
Lo spazio pubblico deve diventare un ponte che agevoli il contatto con il teatro e la cultura. I parchi e le piazze sono familiari, democratici e capaci di attrarre persone lontane dai teatri e dalle biblioteche. Lo spazio pubblico abbatte le barriere tra performer e spettatore ponendo tutti sullo stesso piano. Uno sforzo in questo senso deve essere fatto da noi attori e registi per rendere accessibile a tutti anche il nostro lavoro.
Difatti una delle critiche che viene spesso avanzata al mondo teatrale è quella dello scollamento dalla realtà, di praticare un teatro per le élite, di essere rinchiusi all’interno delle proprie mura. Ed è paradossale che in questi stessi termini parlava Paolo Grassi sulle colonne dell’Avanti! nel 1946 quando manifestava la necessità di un teatro servizio-pubblico capace di avvicinare la collettività e non più rinchiuso all’interno delle sue mura.
È così, bisogna avere il coraggio di andare in mare. Certo, i propri saperi vanno trasformati, quello che funziona all’interno di una scatola buia non può essere riproposto tale e quale nello spazio aperto ma su questo fronte le nuove tecnologie ci vengono in soccorso dandoci modi di comunicare inimmaginabili fino a pochi anni fa. Il mestiere del regista, dell’attore e dell’operatore culturale in questo contesto è un po’ quello del traghettatore. Ci basta un’unghia offerta dalle persone: questo piccolo frammento di vissuto va poi valorizzato e infine portato in scena attraverso un processo partecipato che permetta a tutti di riconoscersi nel progetto.
In questo contesto di dialogo tra cittadini, artisti-medium e città meticce, lo spazio urbano diventa punto di partenza per le attività culturali. Cantieri Meticci opera principalmente nelle periferie, quartieri nei quali spesso mancano spazi quali piazze e parchi, come vi muovete a riguardo?
La nostra strategia è operare attraverso un medium, un oggetto che diventa opera d’arte collettiva nel quale le persone possano riconoscersi. Per esempio, a Borgo Panigale la scorsa estate abbiamo portato il Treno del Ricomincio, un treno-scenografia di 30 metri che gli abitanti hanno contribuito a costruire, arredare e decorare. Costruendo uno spazio simbolicamente se ne prende possesso, la soggettività e la sensibilità di ciascuno si sovrappone al luogo che diventa improvvisamente familiare. Attraverso questo artificio creiamo nuovi spazi, mettiamo in stretta relazione le persone con i luoghi e diamo inizio ad una pratica di narrazione collettiva e comunitaria.
Federico Minghetti
[giugno 2021]
Studente universitario, fondatore di Cu.Bo APS e accanito frequentatore di concerti di ogni tipo. Nato come musicista si converte alla gestione di progetti culturali e creativi con l’obiettivo di generare un impatto positivo sul tessuto sociale locale. Opera tra Ravenna, Milano e Bologna.