La prima volta che ho sentito parlare dei Sahrawi è stato dalla voce di Milena Gabanelli, in una puntata di report del settembre 2004, grazie alla quale ho scoperto l’esistenza di un muro minato in mezzo al deserto del Sahara,“lungo due volte l’Italia”.
Iniziati nel 1980, i lavori furono terminati nel 1987, due anni prima del crollo del più famoso muro di Berlino. Conosciuto come berm, letteralmente terrapieno, è lungo circa 2.700 chilometri.
Facevo fatica ad immaginare che fosse ancora in piedi, nella mia ingenuità di studente non credevo che nel ventunesimo secolo si potesse permettere una tale oscenità. Tempo dopo quella sera del 2004, non so bene dire quando, ho deciso che sarei andato a vederlo con i miei occhi, e che avrei girato un documentario sul Sahara Occidentale. Per capire quello che accade oggi, bisogna avere chiaro il contesto nel quale il cessate il fuoco è piombato, nel 2020, nel silenzio più assoluto. E’ importante dire che prima del 2020 le cose non erano diverse, non tanto perchè non è mai stato un argomento discusso nei mass media o in Parlamento, né prima né dopo la pandemia di covid-19. Mi sono messo a studiare le risoluzioni delle Nazioni Unite sul Sahara Occidentale: dalla metà degli anni ‘70 fino ai primi anni 2000.
Il muro minato che ha distrutto la secolare vita nomade della regione, che ancora oggi separa famiglie e miete vittime, semplicemente non esiste, non viene mai menzionato.
Non potrò mai scordare la prima volta che sono stato nei campi profughi Sahrawi e da lì sono poi entrato nel Sahara Occidentale. Era il gennaio del 2011: in aeroporto ci hanno sequestrato le macchine fotografiche e siamo rimasti bloccati ad Algeri per qualche giorno, ma poi finalmente siamo arrivati nel Sahara. Le prime notti nel deserto sono un’esperienza irripetibile: il buio totale, lo sbalzo termico rispetto al giorno, il cielo ricoperto di stelle fino alla linea dell’orizzonte. E’ difficile descrivere il contrasto fra la meraviglia del deserto e la miseria umana, a parole è davvero difficile.
Durante le cinque settimane di viaggio ho conosciuto diverse persone, capito alcune cose e posto molte, moltissime domande.
Ho finito il film 10 anni dopo quel viaggio e sono tante le risposte mancanti, ma mi sono chiari alcuni punti.
Si parte da lontano.
Nel 1885 le potenze europee letteralmente disegnarono a tavolino i confini di tutto il continente africano. Si diedero anche delle regole ovvero: chi prima occupa, prima diventa padrone di tutto e tutti. In questo assalto organizzato, il territorio del Sahara Occidentale finì sotto il controllo della Spagna. Forme di resistenza iniziarono a manifestarsi, gradualmente ma inesorabilmente. La lotta armata esploderà poi con il rifiuto del passaggio da una corona all’altra, poco meno di un secolo dopo.
La guerra infatti scoppiò nel 1975 quando, approfittando della debolezza del dittatore e dell’impero spagnolo ormai ridotto a brandelli, il Marocco decise di occupare il Sahara Occidentale subito dopo la morte di Francisco Franco. La “madrepatria spagnola” semplicemente si ritirò, cedendo ai nuovi occupanti le postazioni militari e stringendo accordi segreti per assicurarsi una fetta delle risorse della colonia perduta.
Il Marocco iniziò subito a sfruttare le enormi risorse minerarie di fosfati del territorio occupato impiegando i coloni, offrendo loro condizioni vantaggiose ed incentivandone l’afflusso nella più classica logica coloniale. Oggi il Marocco è uno dei principali esportatori di fosfati al mondo. I popoli della regione, storicamente divisi e spesso in conflitto fra loro, si unirono contro il nuovo invasore.
Il Fronte Polisario emerse come leader della resistenza ed ancora oggi è considerato dalle Nazioni Unite il legittimo rappresentante del Popolo Sahrawi. Il 27 febbraio 1976 il Fronte Polisario fonda la Repubblica Araba Sahrawi Democratica nei campi profughi nei pressi di Tindouf, all’estremo sud ovest dell’Algeria. Migliaia di persone si rifugiarono qui scappando dalla guerra a partire da metà anni ‘70.
Ho conosciuto diversi testimoni di quei giorni, nessuno di loro poteva immaginare che sarebbero rimasti in questo sperduto angolo di deserto tanto a lungo. Durante la guerra, fra il 1980 ed il 1986, il Marocco costruì il muro ed i campi minati mentre il conflitto continuava con attacchi e sabotaggi da parte del Polisario, reazioni e contro-reazioni. La solita logica di guerra che porta alla rovina da tempi immemorabili ma della quale, pare, non riusciamo a liberarci. Nel 1986 la Spagna entrò nell’Unione Europea ed iniziarono gli accordi del “nuovo” soggetto politico europeo con l’occupante. Sono in affari sporchi con gli occupanti anche molti altri soggetti, provenienti da ogni angolo del mondo. Inizialmente progetti ed investimenti per il moderno sfruttamento industriale delle risorse ittiche e dei fosfati, più recentemente si assiste anche ad importanti investimenti nella produzione di energia rinnovabile. Il problema è che i membri delle Nazioni Unite dovrebbero rispettare, fra gli altri, il principio di non violazione della sovranità sulle risorse naturali: è parte integrante del Diritto all’Autodeterminazione dei Popoli. Resta da chiedersi perché da decenni alcuni Stati, l’Unione Europea e molte corporation, possono commerciare con le risorse di un “territorio non autonomo” ed ancora nella lista nei “Paesi in via di decolonizzazione“. Dopo 16 anni di conflitto armato, il 6 settembre 1991 entrò in vigore il cessate il fuoco. Venne creata una missione ONU ad hoc che aveva uno scopo preciso, oltre naturalmente al ruolo di garante per far tacere le armi. L’obiettivo della missione sta nel suo nome, MINURSO: Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale. Le Nazioni Unite non solo avevano da tempo sancito il Diritto del Popolo Sahrawi all’Autodeterminazione, ma avevano anche stabilito lo strumento da usare ovvero un referendum.
La consultazione era prevista inizialmente per il 1992. Dopo tre decenni, i Sahrawi sono ancora in mezzo al deserto ad aspettare che qualcosa cambi. E’ in questa fase storica che inizia il mio viaggio, a vent’anni dal cessate il fuoco e qualche mese dopo le grandi proteste di Gdeim Izik del 2010, dove erano in migliaia: le più imponenti da anni. Come di costume per il Regno, la protesta venne violentemente repressa ed i leader della mobilitazione finirono in carcere. Molti di loro sono tutt’ora detenuti, colpevoli di aver osato protestare nel giardino del Re.
Era questo che il documentario voleva raccontare: “state of rest”, ovvero “stato di quiete”. Lo scorrere del tempo per i Sahrawi è lento e crudele, nascono e muoiono da rifugiati: confinati in quel pezzo di deserto da generazioni, vivendo di aiuti umanitari portati con i camion, in attesa di un referendum che non arriva mai. Passano i decenni ed i coloni marocchini hanno popolato le terre occupate, anche loro ci vivono ormai da generazioni. Un referendum oggi è possibile? Con quale criterio si dovrebbe scegliere chi vota? Me lo sono chiesto molte volte, la verità è che non ho risposte. Continuavo e continuo a pormi domande, del tipo: “per quanto ancora i Sahrawi sono disposti a sopportare tutto questo?” Ora ho una risposta: la pazienza è finita nel novembre del 2020 a seguito dei fatti di Guerguerat. Un gruppo di attivisti Sahrawi aveva interrotto il traffico di merci, bloccando una strada. Guerguerat è una zona compresa nella cosiddetta "area buffer strip", ovvero una zona cuscinetto in teoria controllata dall’ONU, nella quale evidentemente transitavano illegalmente merci. Non è stata né la prima né la più violenta delle repressioni, ma questa volta le cose sono sfuggite di mano ed il cessate il fuoco è crollato: il Sahara Occidentale è di nuovo in guerra.
Per tutta risposta il Re ha riaperto la breccia illegale, e si è poi è dedicato all'autocelebrazione con un evento di auto da rally d'epoca nella città occupata di Dakhla. Nella stessa città i mondiali di kitesurf si svolgono tranquillamente da anni, e nel 2021 gli Stati Uniti hanno aperto un consolato. Diversi Stati hanno seguito questa ennesima follia di Donald Trump, prima che lasciasse la Casa Bianca. La repressione è sempre stata dura nei territori occupati, ma dalla fine del 2020 si è intensificata. Ritorsione, non so come altro chiamarla. Gli attivisti sono seguiti ed arrestati nelle loro stesse case, matrimoni impediti con la forza, detenzioni arbitrarie, torture, stupri, persone svanite nel nulla. Tutto ciò accade da anni, e continua ad accadere. Affermo questo perché sono in contatto diretto con alcune di queste vittime, non parlo per sentito dire.
Il governo spagnolo nel 2022 ha deciso un improvviso, storico cambio di rotta. Passando da decenni di sostegno, almeno a parole, all’Autodeterminazione dei Sahrawi ed a quanto sancito dalle Nazioni Unite, a sposare la proposta indecente dell’occupante marocchino: una sorta di autonomia territoriale all’interno del Regno. Insomma, in barba a tutto quello che le Nazioni Unite rappresentano. Il punto è che, a differenza del governo spagnolo, quasi nessuno conosce il Sahara Occidentale, il saccheggio delle sue risorse naturali ed una storia di occupazione lunga più di quarant'anni.
La cinica ed intelligente politica del Re ha quindi avuto gioco facile nel ventunesimo secolo: lavoro sporco con energia pulita. A partire dal 2018 il Marocco e diverse corporation hanno realizzato un moderno impianto fotovoltaico da 8.5 MW a Laayoune, la capitale occupata da metà anni ‘70. Nei territori occupati ci sono impianti eolici, idrici e molto altro.
Da decenni il Polisario chiede alle Nazioni Unite di far rispettare le proprie risoluzioni, mentre gli investitori stranieri abbondano nelle terre occupate e gli affari coloniali continuano indisturbati.
Nel Sahara Occidentale si spara ormai da due anni ed il silenzio che circonda questa storia non è niente di nuovo, ma continua a fare male.
Claudio Maurici
[Settembre 2022]
Claudio Maurici è stato educatore in un progetto sociale per i “ragazzi di strada” in Messico dal 2008 al 2009. Poi è stato coordinatore per l’ufficio rifugiati ICS di Trieste dal 2014 al 2016. Dal 2011 ha visitato il territorio del Sahara Occidentale, impiegando 10 anni a finire il suo documentario “State of Rest”.
Foto: credit Lorenzo Schiff