Il 30 luglio Ravenna ha dedicato un importante appuntamento alle relazioni culturali tra Italia e Senegal in memoria di Mandiaye N’Diaye, nel solco di Dante Alighieri, in occasione del 700° anniversario della morte.
Si sono rievocati, grazie agli interventi dei molti relatori, i tanti progetti che hanno coinvolto Ravenna, a partire dalla fine degli anni ’80, creando un ponte culturale col Senegal. Tra questi l’esperienza del Teatro delle Albe ha rappresentato un unicum ancora oggi fonte di interesse e di ispirazione: a Mandiaye e alla sua eredità Ravenna deve molto ed è di grande rilievo che gli venga riconosciuto nel nome di Dante.
In questo anno così denso di appuntamenti dedicati alla memoria del sommo poeta sono state innumerevoli le traduzioni in altre lingue, funzionali alla comprensione e fruizione della sua opera da parte di un pubblico sempre più vasto.
Un’impresa certo degna di nota, come sempre lo è l’atto del tradurre, ancor più nel caso della Divina Commedia, il testo dei testi, citato all’infinito, ma in realtà conosciuto in profondità da pochi e perciò ancora e sempre meritevole di attenzione e studio.
Non esisteva una versione dantesca in wolof (lingua prevalentemente orale, parlata in Senegal) e dobbiamo all’Istituto Italiano di Cultura a Dakar, alla lungimiranza della sua Direttrice Cristina di Giorgio, con il supporto istituzionale, l’iniziativa di coinvolgere lo scrittore ed intellettuale Pap Khouma (nato in Senegal e naturalizzato italiano) affidandogli il I canto dell’Inferno.
Un’esperienza che Khouma ha definito “ai limiti del misticismo” per la complessità derivata da infiniti fattori. In primis la scelta di partire dal testo dantesco in originale non mediato dal francese, lingua ufficiale in Senegal, poi dalla necessità di optare per una variante colta di wolof il più possibile priva di prestiti da altre lingue (quella parlata a Dakar ad esempio è molto ricca di termini francesi, arabi, inglesi, portoghesi).
Ed infine per la resa dell’universo dantesco e l’apparato simbolico che la accompagna. Un esempio fra tutti: la lupa che incontra Dante nella selva oscura è un animale sconosciuto in Senegal e dunque è diventata uno sciacallo.
Fondamentale è stata inoltre l’attenzione al ritmo per poter rendere la musicalità delle terzine: in questo la cultura africana è stata di grande aiuto, il rap è infatti il ritmo in cui in wolof si invocano gli spiriti, dunque può richiamare con efficacia l’oltretomba dantesco.
Un lavoro lungo ed impegnativo che Khouma non ha affrontato in solitaria, ma consultandosi con dantisti ed intellettuali, in un dialogo costante, apportando gli ultimi ritocchi ancora alla vigilia dell’incontro ravennate.
Un’impresa al limite dell’idea stessa di traduzione, ma al contempo un’estrema sintesi del gesto che sta all’origine del traducere, del portare al di là, superando lo spaesamento costante di chi si trova fra due lingue e due culture, oltrepassando quello spazio liminale che costituisce la distanza.
Di soglia in soglia, il titolo scelto per la giornata, rimanda ad un verso del Paradiso, ma sembra ancor più evocare il senso profondo del tradurre, quel perdersi e perdere nel passaggio da una lingua all’altra, nella consapevolezza che rinunciare al sogno della traduzione perfetta (come ci ricorda Ricouer) è l’unica via per superare la soglia, verso l’accettazione della differenza insopprimibile tra sé e l’altro.
Inevitabile ripensare a quanto ripeteva spesso Mandiaye, Io sono noi, mentre ascoltavamo i versi in wolof davanti alla tomba di Dante, cullati dal ritmo e dalla melodia di una lingua sconosciuta. Ci ha ricordato il valore universale della poesia e quanto sia necessaria la dissonante armonia della diversità.
Carla Babini
[luglio 2021]
Per la foto: credit Nias Zavatta